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Capitalismo e femminismo

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Leggo oggi su “Repubblica” che nel prossimo numero di “Micromega” una parte sarà dedicata ad un scambio epistolare che c’è stato fra Nadezhda Tolokonnikova (in prigione in Russia in quanto pussy riot) e il filosofo Slavoj Zizek. A quanto mi è parso di capire l’oggetto della discussione sarebbe il rapporto fra capitalismo e femminismo, un tema difficile quanto interessante. Da quel che ho letto sembrava che i due tendessero a legare due fenomeni: il capitalismo ed una forma maschilista di società. La tesi non è nuova ed è su questa che voglio confrontarmi, non avendo ancora potuto leggere integralmente il contenuto delle lettere dei due (qualche estratto si trova qui) sarebbe un puro esercizio di stile starci a riflettere su.

La mia impressione, in realtà, è del tutto opposta e vorrei provare ad argomentare a riguardo. Mi sembra che le (sacrosante) battaglie dei movimenti femministi siano cresciute e si siano sviluppate con successo proprio in quei paesi dove lo sviluppo economico di tipo capitalismo era più progredito ed avanzato. Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna, per intenderci, sono stati fra i primi paesi ad aver portato avanti significativi progressi sul fronte dell’eguaglianza tra i sessi, e ad introdurre il suffragio universale. Senza dubbio la stessa Russia, oggi al centro di forti polemiche sia riguardo la parità dei sessi sia sul tema dell’omosessualità, è un paese capitalista, dove vige l’economia di libero mercato. Si dimentica però che la forma di capitalismo presente in Russia è molto più arretrata di quello di altri paesi; essa si trova quindi ad affrontare ora quei problemi che paesi più avanzati hanno fronteggiato già a tempo debito. Si può dire anche che è proprio in un contesto economico di questo tipo che crescono le condizioni delle stesse battaglie femministe.

Non credo siano mai esistiti (almeno che io sappia) movimenti femministi sviluppatisi in realtà feudali o premoderne. E’ perlopiù con l’avvento delle forme industriali di produzione e con l’avvento della società di massa che questi si fanno strada. Benché infatti sia molto ricca e variegata la tipologia dei femminismi sul fronte filosofico, in qualche modo non credo sia fuori luogo rintracciare il motore primo di questi fenomeni, almeno rispetto all’ambito più strettamente politico, nel liberalismo anglosassone. Non si vuole qui certo sostenere che i pensatori liberali siano stati sempre favorevoli al fenomeno dell’emancipazione femminile (si pensi, rispetto ad una questione per certi versi analoga, al complesso rapporto tra liberalismo e schiavitù, ben fotografato da Domenico Losurdo). Quello che vorrei sostenere è che la matrice politico-culturale del movimento femminista è in primo luogo liberale: è l’idea della “libertà da” che sta a fondamento di molte forme di emancipazione. Al contempo è innegabile il legame tra capitalismo e liberalismo, due termini ancora una volta non coincidenti, ma senza dubbio fortemente legati e accomunati da lunghi percorsi storici in comune.

Non è un caso che, nonostante gli indubbi legami del movimento femminista con forme di socialismo o di egualitarismo, a portare avanti questi principi siano state perlopiù aree di una sinistra perlopiù movimentista, radicale ed antiautoritaria. Una sinistra che risulta molto più vicina a quella di tradizione anglosassone (si veda ad esempio il New Statesman) che a quella italiana o di altri paesi. Insomma, la mia impressione è che, benché siano in concreto movimenti e partiti legati all’area di sinistra a portare avanti le battaglie femministe (e anche quelle omosessuali), queste nascano e si sviluppano in realtà economicamente floride e caratterizzate da un’economia di mercato.

A mio avviso, l’idea di legare al capitalismo una mentalità maschilista e fortemente bigotta è semplicemente sbagliata; credo che nasca da una confusione concettuale tra quello che è un tipo di sistema economico e quella che invece era la realtà borghese del secolo scorso. Il punto è che il capitalismo non si identifica solamente con questa forma di società, ma ha un respiro ben più ampio. Con tutto ciò, ovviamente, non voglio affatto esaltare o legittimare l’esistente, ma semplicemente cercare di dare uno sguardo un poco più ampio alla realtà che ci circonda. Non voglio neppure spingermi, come fanno alcuni, a considerare persino il ’68 come tappa tutta interna alla narrazione capitalistica, benché possa essere uno spunto interessante. Credo sia però del tutto plausibile sostenere, contro una nozione “chiusa”, che lega fortemente il capitalismo con una certa forma di società borghese, una nozione più “aperta” di questo, per cui molte delle rivendicazioni sociali che animano il nostro tempo non sarebbero contrarie, ma del tutto conformi a quella che è la nostra realtà economica.



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